by Enrico Roberto Carrara//


La gravel, in Italia, nasce intorno agli anni ’70 nelle corse nei campi o sulle strade sterrate con qualsiasi tipo di bicicletta che fosse possibile utilizzare. Dalla Graziella sottratta alla sorella alla bici da fornaio trovata in qualche discarica, dalla bici regalata per la cresima a quelle assemblate, rabberciate, riparate, modificate nei modi più disparati e fantasiosi ma con un’unica inalienabile caratteristica: la totale inaffidabilità.
Nella mia gioventù questo fatto ci faceva essere per metà ciclisti e per metà podisti costretti a rientrare a casa con la “spicciola” troncata a metà su un salto. Vabhè… saltino.
Se noi bresciani le avessimo dovute battezzare le avremmo chiamate Gera (ghiaia) oppure Cioss (campetto).
Ero un cucciolo di bipede quando la mia fantasia cercava un punto da fissare, da fare coincidere con una meta che giustificasse un viaggio che fosse più in là delle mie Colonne d’Ercole segnate dai confini del mio quartiere oltre i quali si leggeva ad opera di mamme protettive e incise a lettere di fuoco “hic sunt leones” e per il branco di cuccioli maschi a cui appartenevo, quelle colonne erano i “Laghetti di Tarzan”. 
La sera prima facevo fatica ad addormentarmi perché all’indomani uscendo di casa per andare a giocare con gli amici, saremmo montati in sella alla nostre biciclette, avremmo preso per via Pusterla e poi giù, a Piazza Arnaldo dove svoltando a destra per Viale Venezia lo si sarebbe percorso tutto fino alla fine dove, se tieni la sinistra, t’infili in Viale Bornata da dove arrivavano, se il vento tirava dal lago, i profumi di malto della Birreria Wuhrer, mentre se giri a destra rientri verso la città lungo Viale Piave.
Esattamente li dove oggi c’è, manco a dirlo, una rotonda, si aprivano i Laghetti di Tarzan.
Primissima periferia, Un boschetto di alberi radi, eliane, pozzanghere, terra mossa, un mondo, dove si correva lungo piste sterrate con bici senza freni, pedali claudicanti, ruote non centrate, copertoni lisi e cuore in gola per affrontare salti, buche e tornati, ma soprattutto per lo spettro della mia mamma se mai fossi tornato a casa sanguinate o tumefatto e quello sarebbe stato ancora il meno. Peggio, molto peggio se avesse scoperto che avevo superato le Colonne d’Ercole.
Le mamme bresciane non perdonavano gli sconfinamenti.
Prego notare che le ragazze dalla nostra compagnia già in quegl’anni avevano smesso di giocare con le bambole mentre noi maschietti ancora oggi, granitici, continuiamo a giocare con le biciclette, le macchinine della pista, trenini, soldatini e se le la nostre signore sono il sesso debole noi maschietti stiamo a mala pena intravedendo la pubertà, irraggiungibile.
Oggi quelle biciclette la chiamiamo Gravel e la cosa fa molto figo, praticamente siamo tornati ad apprezzare la bicicletta degli albori con la differenze che le “strade bianche” oggi le andiamo a cercare mentre in occasione della prima corsa ciclistica italiana, la Firenze Pistoia anno 1870 e per svariati decenni successivi, quello c’era, la ghiaia, quando andava bene.